Il periodo romano dell’Alfieri e la «Merope» (1963)

Aa.Vv., Studi in onore di Carlo Pellegrini, Torino, Società Editrice Internazionale, 1963, pp. 351-370; poi in Saggi alfieriani (1969 e 1981) e Studi alfieriani (1995).

Il periodo romano dell’Alfieri e la «Merope»

Nel maggio del 1781 l’Alfieri aveva raggiunto, a Roma, dopo una lunga separazione, la contessa d’Albany e, a costo di umilianti compromessi, di «pieghevolezze e astuziole cortigianesche» (come egli dice nella Vita[1]), era riuscito a stabilirsi nella città in cui la donna amata risiedeva sotto la protezione e la tutela del cognato, il cardinale di York.

In questo lungo periodo (12 maggio 1781 – 4 maggio 1783) il poeta trovò un particolare agio di vita, un singolare equilibrio fra la solitudine adatta agli studi e all’esercizio poetico, il conforto delle quotidiane visite alla sua donna, il contatto con una società di letterati che stimolavano in lui un nuovo desiderio di fama e di affermazione letteraria. Condizioni propizie alla sua vita di affetti e di poesia ch’egli poté piú tardi rimpiangere nelle pagine della Vita esaltando nella luce del ricordo gli elementi piú positivi di quel soggiorno:

Nei due anni di Roma io aveva tratto una vita veramente bella. La villa Strozzi, posta alle Terme Diocleziane, mi avea prestato un delizioso ricovero. Le lunghe intere mattinate io ve le impiegava studiando, senza muovermi punto di casa se non se un’ora o due cavalcando per quelle solitudini immense che in quel circondario disabitato di Roma invitano a riflettere, piangere, e poetare. La sera scendeva nell’abitato, e ristorato dalle fatiche dello studio con l’amabile vista di quella per cui sola io esisteva e studiava, me ne ritornava poi contento al mio eremo, dove al piú tardi all’undici della sera io era ritirato. Un soggiorno piú gaio e piú libero e piú rurale, nel recinto d’una gran città, non si potea mai trovare; né il piú confacente al mio umore, carattere ed occupazioni. Me ne ricorderò, e lo desidererò, finch’io viva.[2]

Certo questo agio, questa condizione di equilibrio intimo, imposero all’Alfieri amarissime rinunzie al suo orgoglio personale, alla sua sincerità e al suo sdegnoso atteggiamento anticortigiano, obbligandolo a penose finzioni sulla vera natura dei suoi rapporti con la d’Albany, a tutta un’azione diplomatica nei confronti del cardinale di York[3] e di quella aborrita corte papale da cui dipendeva l’autorizzazione alla sua permanenza in Roma vicino all’amante. Azione diplomatica cosí contraria al suo carattere e che egli fu costretto a spingere (come narra fra ironia, sdegno e mortificazione nella Vita[4]) fino ad una visita al Papa e al tentativo di dedicargli il Saul!

A queste necessità di compromesso reagiva però l’animo piú vero dell’Alfieri, che, mentre all’esterno si mostrava arrendevole, conciliante per salvare la possibilità di una vita di affetti e di lavoro in quelle condizioni cosí propizie, si riscattava segretamente con la rinnovata e impaziente espressione dei suoi sentimenti antitirannici e anticlericali, del suo sdegno libertario, dei suoi miti eroici. Come si può documentare con la lettura delle odi L’America libera e, piú, dell’Etruria vendicata.

Le cinque odi, scritte fra il dicembre del 1781 e il giugno del 1783, rappresentano infatti una nuova esplosione dell’animo alfieriano che, proprio nella Roma papale, nel centro di un’Italia che a lui appariva incapace di volere e operare azioni generose ed eroiche, esalta le gesta dell’“uomo libero” Washington, la lotta del popolo americano contro la dominazione coloniale inglese (di quegli inglesi che, pur possedendo nei loro ordinamenti interni il valore della libertà, appaiono in questo momento all’Alfieri tiranni di altri popoli per la loro avidità mercantile e per il prevalere del “partito del re”: e si ricordi la giovanile diagnosi della situazione inglese nella lettera ai Sabatier[5]), l’intervento generoso del La Fayette, paragonato agli antichi eroi di libertà greci e latini, la contrapposizione fra la libertà incarnata in un popolo che preferisce «morir mille volte anzi che sola / una servire» e il dispotismo che domina le nazioni europee, le «nostre infauste rive, / dove in morte si vive»[6]. Come l’Alfieri dice nell’ode quinta con accenti vigorosi e suoi che si fan luce, con poche altre espressioni piú intense e profonde, in un testo piú interessante da un punto di vista documentario che non poetico.

Anche perché queste odi corrispondono ad una velleità letteraria di nuova esperienza di forme artistiche, diverse da quella tragica, e a quella volontà di un maggiore contatto con la tradizione letteraria italiana che ha il suo maggior valore nella stessa ripresa tragica attraverso il complesso esercizio della Merope.

Qui c’è la chiara presenza del Filicaia (anzi l’Alfieri dice nella Vita che a scrivere l’America libera fu indotto dalla lettura di «alcune bellissime e nobili odi del Filicaia, che altamente mi piacquero»[7]), ma risentita fuori della essenziale compostezza e frigida chiarezza del modello, in un confuso turgore d’impeti, in un tumulto di volizioni pratiche, di riflessioni storico- politiche che il poeta non seppe chiarire e coordinare, incapace di trovare un vero centro lirico animatore e un preciso schema organico ai suoi impeti sentimentali troppo irruenti e disordinati, al suo sfogo ardente ed amaro. Sfogo che rivela il suo carattere piú vero, dolente, pessimistico (ma ancora in forma di interessante documento della situazione alfieriana di scontentezza e di delusione di fronte alla realtà storica, ai precisi avvenimenti del tempo, sempre impari al suo ideale assoluto ed eroico-individualistico), quando nell’ultima ode, scritta dopo la pace del 1783 fra americani ed inglesi, la linea di esaltazione della lotta liberatrice degli americani (già venata di movimenti pessimistici nella constatazione degli interessi impuri e degli stessi interessati aiuti forniti alle colonie americane dal regno di Francia) si spezza di fronte a quello che l’Alfieri considerava un vile compromesso della libertà americana con il dispotismo regnante in Europa e di fronte alle ragioni economiche che improvvisamente egli scopre nella stessa lotta di liberazione degli americani. Essi han combattuto per sottrarsi alle imposte, ai dazi protezionistici degl’inglesi sul tè; e come non può essere vera pace quella che è stipulata mentre una gran parte dei popoli rimane soggetta alla tirannide ancor forte ed armata in Europa (l’Alfieri sognava una lotta senza quartiere fra libertà e tirannide e la definitiva, totale sconfitta di quest’ultima), anche la stessa guerra che prima il poeta aveva cantato ed esaltato gli appare motivata da cause impure e vili ed egli contrappone ad essa le guerre degli antichi, mosse, secondo la sua idealizzazione, dal puro amore della libertà e da un eroismo generoso e gratuito:

Maratóna, Termòpile, l’infausto

giorno di Canne stesso;

guerre eran quelle: e ria cagione il vile

lucro servil non n’era, ove indefesso,

d’avarizia inesausto,

tutti scorrendo i mar da Battro a Tile,

veglia il moderno ovile.

Pace era quella, che d’Atene in grembo,

con libertade ogni bell’arte univa;

dove a un tempo si udiva

di varie e dotte opinioni un nembo. –

Ma, in questa età, che è lembo

d’ogni bell’opra estremo,

qual fia tema di canto? a chi secura

volgo mia voce, mentr’io piango e tremo?

«Ahi, null’altro che FORZA al mondo dura!»[8]

L’entusiasmo iniziale si cambia in una fremente delusione, in una denuncia del “secolo vile”, del presente impoetico e antieroico, in un dolente grido pessimistico che ricollega anche quest’opera, letterariamente e poeticamente fallita (vano tentativo di costruire in forma efficace e positiva un inno alla libertà attuata nella storia del proprio tempo), all’animo piú profondo dell’Alfieri, al suo senso doloroso della realtà sempre inferiore all’ideale. E la ricollega, d’altra parte, anche alle condizioni speciali di un’epoca in cui, sotto il compromesso umiliante con la corte romana, il poeta tentava di riscattarsi piú congenialmente nella intima rivolta contro ogni compromesso, dibattendosi tuttavia in tentativi di accordo almeno con gli aspetti piú generosi e combattivi di quell’età, che pur sempre gli appariva impari al suo sogno e piú adatta alla satira amara, e con le forme letterarie che piú si adeguavano o al suo bisogno di satira e invettiva o a quella tensione eroica che lo portava appunto all’equivoca tradizione della lirica “alta” o, nel Saul (dove piú forte è la polemica anche letteraria col secolo «niente poetico, e tanto ragionatore»), alla immaginosità della Bibbia e di certa innografia settecentesca.

Anche il poemetto L’Etruria vendicata (iniziato sin dal 1778, nel periodo di sdegno antimediceo della Congiura de’ Pazzi e proseguito poi sino al 1786, ma sviluppato in gran parte negli anni romani, in cui fu scritto il terzo canto, riboccante piú di ogni altro di impeti anticlericali) vale soprattutto come documento dell’animo alfieriano, della sua situazione in questo periodo fra la volontà di un esercizio letterario diverso da quello tragico[9] e di una ripresa di forme letterarie tradizionali, e il bisogno di uno sforzo acre e satirico contro la tirannide politica e sacerdotale: esercizio e sfogo mancante di un saldo impianto organico (l’Alfieri era inadatto alla costruzione di un poema e finiva per disperdersi, per dilungarsi eccessivamente, fuori dello schema tragico piú congeniale alla sua ispirazione) come egli stesso constatò nella Vita parlando dei suoi inutili sforzi di brevità, della sconnessione del poemetto, della difficoltà di restar fedele al suo intento di far «cosa originale e frizzante d’un agrodolce terribile»[10].

Si trattava di un intento ambizioso che egli avrebbe ripreso nelle Satire, ma con una maggiore libertà da quello schema narrativo che era un surrogato infelice allo schema tragico: il quale poi di quando in quando tende a riaffiorare in alcune situazioni piú tese, ma poco adatte al poemetto, cosí come troppo spesso il «terribile» vi si sviluppava in forme truci, esagerate, di visioni paurose, goffe, e letterariamente retoriche[11], e troppo spesso l’«agrodolce» si scindeva in motivi comici troppo calcati e ripetuti e in acerbe caricature appesantite da un risentimento troppo aperto (specie proprio nel terzo canto e nella satira del clero crudele ed ipocrita, che richiama su altro piano l’invettiva di Saul contro i sacerdoti) e mancanti di quella agevolezza di disegno che l’Alfieri comico mal possedeva e che tuttavia piú efficacemente avrebbe piú tardi cercato in forma ancor piú esplicita e costante nelle Commedie.

E mentre debole, contorto è l’impianto narrativo, basato sull’antistorica rappresentazione dell’assassinio di Alessandro de’ Medici da parte del cugino Lorenzo (di cui si accetta la giustificazione plutarchiana dell’Apologia: assassinio del tiranno per amore di libertà, per vendetta della libertà fiorentina), e complicato dall’accessorio inefficace della vicenda della sorella di Lorenzo insidiata nel suo onore da Alessandro, lo stesso contrasto fra l’uomo libero e il tiranno perde ogni vero valore poetico nella soluzione cosí poco alfieriana di un contrasto fra un eroe atteggiato retoricamente e un tiranno grottescamente e plurilmente vile, privato di ogni grandezza. Sí che, nel finale farraginoso e lentissimo, il duello fra i due avversari (quando la libidine induce Alessandro a presentarsi senza la protettiva corazza e senza sgherri ad un convegno amoroso che gli è stato preparato come trappola da Lorenzo) si risolve in una stentata e buffonesca rincorsa, alla fine della quale Lorenzo cerca invano di costringere il vilissimo cugino a trafiggersi con la sua spada e solo all’ultimo si decide a colpirlo con la propria.

Fallito il disegno generale, anche le scene particolari di rappresentazione satirica e comica della paura del tiranno e della viltà e scelleratezza dei suoi cortigiani e consiglieri riescono (anche nell’impasto poco riuscito di moduli letterari eroicomici e satirici: poemi burleschi del Quattrocento-Cinquecento, il Parini del Giorno, e di ritmi narrativi ripresi dal Tasso e dall’Ariosto) generalmente sforzate e diluite per un eccesso di ripetizioni e per un’abbondanza di caratterizzazioni poco incisive e poco distintive.

Cosí nella lunghissima scena del primo canto in cui l’Alfieri vuole rappresentare la situazione di paura e tremore del tiranno nel suo palazzo, circondato da sgherri altrettanto vili e paurosi (scena in rigida e poco vivace simmetria con quella che descrive la situazione di Lorenzo «intrepid’alma», sollecitato al tirannicidio dall’apparizione della Libertà), uno spunto piú efficace (ripreso dalla Tirannide, dal capitolo sulla paura il cui tempio è la corte) trova un breve risultato artistico nell’atteggiamento di reciproco timore del tiranno, destato nel suo sonno dalla visione del Timore che lo invita a tremar sempre se non vorrà essere ucciso, e del capo dei suoi pretoriani, Arrigo, che accorre al suo grido di spavento e rimane di fronte a lui tremante e timoroso che il duca vedendolo sopraggiungere pensi (come pensa) che egli venga non in suo soccorso, ma per ucciderlo:

Trema Arrigo in veder la regal tema:

d’Arrigo ai moti intento il prence trema [...]

Cosí il gran tòsco duca, e Arrigo forte,

esterrefatti, l’un l’altro guatava,

dipinti in viso di color di morte;

ciascun tremante l’altro spaventava.[12]

Ma la situazione piú intensa si scioglie in paragoni letterari dispersivi (il pericolo dell’esercizio «al far rime») e, ripetendo lungamente l’indovinato motivo e l’intreccio delle parole tematiche “temere” e “tremarci”, tutto si riduce ad un giuoco sforzato ed insipido, a un incontro rigido di marionette, cosí diverse dalla varia potenza e serietà che anima le livide figure dei tiranni e dei loro perfidi consiglieri nelle tragedie. Cosí nella lunghissima scena del consiglio del terzo canto (si pensi per contrasto al consiglio del Filippo), la folla dei consiglieri politici e clericali, che spingono il tiranno a prevenire Lorenzo uccidendolo, non si anima in rilievi di figure e in forza di dialogo, ma si presenta in una serie interminabile di caricature per lo piú sbiadite e ripetute senza che mai il poeta riesca a concentrare l’«agrodolce terribile» in qualche compiuto personaggio o a far circolare in tutta la scena quell’aura di orrore e di satira e di sdegno per un’umanità bassa e vile che pure, proprio nella stesura di quel canto, poteva scaturire dal suo risentimento tanto piú forte nella reazione al compromesso con i «pretacchiuoli» della corte romana che tanto gli pesava in quegli anni.

Proprio il carattere troppo pratico di quello sdegno e d’altra parte la volontà di un esercizio letterario non riescono a fondersi in capacità espressiva. E mentre spesso l’Alfieri finisce per scendere sul piano di una rappresentazione parodistica di tipo pariniano troppo esterna e poco pungente[13] (che pur riprenderà in qualche momento delle sue Satire con migliore risultato, ma piú decisamente nel tono di un «brio severo» che qui, di fatto, non raggiunge), altre volte carica eccessivamente le sue figure satiriche di fiele personale, di allusioni autobiografiche[14], o riduce la forza distintiva in nomi satirici sulla base di caratterizzazioni ripetute e sfocate (Frate Strozzicchia, l’inquisitore, il poeta cortigiano Dolcimele, Scartabello, il bibliotecario ducale ecc.) o sfoga il suo acceso anticlericalismo e anticattolicesimo in lunghe e goffe tirate in cui sfogo pratico ed esercizio letterario finiscono o per scomporsi o per elidersi senza raggiungere fusione ed efficacia: come nella lunga parlata di Plenario, il penitenziere del duca, che precisa (nell’ultima strofa del canto terzo) il consiglio della soppressione di Lorenzino in nome della ragion di stato e della difesa meritoria della Chiesa dall’eresia, alleata della libertà:

Pur che l’uom miscredente, audace, e tristo,

a gloria e in nome del Signor si uccida,

d’ogni colpa ti assolvo; e appien fia spenta,

se tre Pater dirai con Ave trenta.[15]

Il sorriso attenua la forza satirica senza raggiungere la pienezza di una rappresentazione comica o il risultato dell’«agrodolce terribile» che l’Alfieri avrebbe potuto realizzare in una direzione piú sua e piú essenziale, in cui il «dolce» non fosse che un tono di chiaroscuro rapido ed energico e non una concessione a forme piacevoli e comiche diluite entro uno schema troppo ampio e narrativo, contrario alle sue possibilità artistiche, alla sua piú vera esperienza letteraria, alla tensione del suo animo.

Solo una volta in questa lunga opera si avverte la voce piú profonda della poesia alfieriana e ciò avviene quando, nell’introduzione alla descrizione degli immaginati affreschi di Michelangelo in onore dei Medici nel palazzo di Alessandro, l’Alfieri improvvisamente scatta in un’ottava energica e vibrante, che (nel rapido trapasso fra l’ardente evocazione di imprese eroiche e divine – alla cui eternizzazione artistica il grande Michelangelo era chiamato dalla sua natura libera e geniale – e la sdegnosa, fulminea rappresentazione di una umanità vile e lasciva, ironicamente assimilata alla prima da tutte le parole del verso tranne l’ultima) risolve poeticamente l’impegno alfieriano di un contrasto di toni eroico-satirici in cui l’«agrodolce» si integra potentemente con il «terribile» altrove risolto in forme truci o retoricamente atteggiate:

Michelangiol, che pugne altre ritrarre

non dovea che dei Numi in Flegra irati;

o di quei che a Termopile le sbarre

chiusero all’oste coi corpi svenati;

o di quei che togliea Roma alle marre,

gran capitani a un tempo, e pro’ soldati:

Michelangiol, da’ rei tempi costretto,

eroi ritrasse a cui fu campo il letto.[16]

Si tratta di un momento[17], anche se altamente indicativo per il senso eroico dell’arte e della vita che l’Alfieri sempre piú fortemente possedeva[18] (e sempre piú fortemente metteva in contrasto con il disvalore, con il mondo frivolo e vile, con i «rei tempi»), per la sua poetica del «forte sentire» e della poesia figlia di libertà, quale egli esporrà nel trattato Del Principe e delle lettere: al quale rimandano anche alcuni motivi che, pur non trovando vita poetica, rendono comunque interessante il poemetto come documento dell’assiduo tormentarsi dell’Alfieri intorno ai suoi ideali politici ed etici, a cui in questo periodo egli apportava l’arricchimento della lettura del Machiavelli. Ed è alla luce dei principi machiavellici (anche se non certo in relazione alla valutazione che il Machiavelli aveva dato di quel personaggio) che nel poemetto compare un Savonarola tutto teso a giustificare la sua opera e la sua predicazione religiosa solo in funzione di un preciso piano politico, adatto poi alla situazione non piú eroica dei suoi tempi:

Regoli qui, qui non avea Catoni:

Roma visto m’avria brandir lo stile;

Flora udí miei vangelici sermoni:

tra grandi grande, infra codardi vile;

a diversi destrier diversi sproni;

altro loco, altra età, vuolsi altro stile:

certo, a color per cui Licurgo scrisse,

stolto fora il narrar Cristo qual visse.[19]

E in piú, di fronte a Lorenzino che si meraviglia del fatto che il Savonarola abbia fatto «timido velo / [...] agli alti insegnamenti / di libertà coll’oppressor Vangelo» (vv. 353-355; posizione tipica della Tirannide, che asseriva l’incompatibilità della libertà con la religione cattolica e con la sua educazione all’obbedienza; ma già si ammetteva una certa eccezione per le religioni cristiano-riformate), il personaggio del poemetto – pur sempre nella giustificazione delle condizioni particolari dell’Italia rinascimentale – accenna ad una valutazione positiva del Vangelo che fa pensare alle posizioni piú complesse del trattato Del Principe e delle lettere e ad una piú forte distinzione fra i motivi etico-religiosi generali e l’atteggiamento pratico della Chiesa romana:

Ma qui, d’Italia fetida nel mezzo,

dove di luce aurora pur non sorge,

a penetrar ben dentro i cuor, qual mezzo

miglior de’ tanti, che il vangel ne porge?

Libro de’ libri! a chi nol legge a mezzo,

è in esso assai piú là che il volgo scorge.

Come dicevo, il poemetto vale soprattutto come documento e particolarmente si ricollega nella sua parte centrale al bisogno di riscatto dal compromesso pratico di quegli anni e al desiderio alfieriano di fare esperienze letterarie piú vaste (anche se sempre in relazione a motivi comunque validi del suo animo, del suo atteggiamento politico e ideale), di prendere migliore contatto con varie forme della tradizione letteraria italiana.

Né tale desiderio si attuò solo fuori del campo della tragedia, ché nel febbraio del 1782, mentre terminava la revisione delle sue prime dodici tragedie in vista della loro pubblicazione (e si proponeva di non superare quel numero), proprio da una rinnovata attenzione allo stile e alla tecnica tragica, che lo aveva indotto a leggere la Merope del Maffei («per pur vedere s’io c’imparava qualche cosa quanto allo stile»[20], in quell’opera considerata come esemplare massimo della tradizione tragica italiana), l’Alfieri fu spinto di nuovo all’attività teatrale. A questa lo sollecitavano anche la lettura che egli veniva facendo delle sue tragedie in vari salotti romani (specie in quello di Maria Pizzelli Cuccovilla) e la rappresentazione in Roma dell’Antigone: prove con cui egli saggiava l’effetto della sua arte drammatica su di un pubblico di letterati e dimostrava a se stesso la bontà della sua riforma teatrale, la forza della sua poesia in un periodo caratterizzato appunto anzitutto da preoccupazioni di contatto con la società letteraria del suo tempo, da volontà di affermazione personale, dal desiderio di rendersi conto piú concretamente della validità della sua tragedia in un piú preciso confronto con la tradizione teatrale e letteraria italiana.

La nuova tragedia, la Merope, con cui il poeta riprese la sua attività piú vera e si preparò ad esprimere nel Saul gli elementi piú profondi del suo animo e una nuova, centrale intuizione del suo potente motivo poetico, nacque cosí in una particolare disposizione di esercizio e di gara, di volontà letteraria, sostenuta, piú che dall’intera presenza del suo nucleo tragico, da una ispirazione piú tenue, dallo sviluppo di sentimenti pur suoi (e sempre piú vivi nella maggior complessità del suo animo ricco e maturo), ma meno centrali: quella «passione molle materna» di cui egli parla nel Parere sulla Merope come di sentimento che «non è interamente il genere dell’autore»[21].

Questa disposizione e questa genesi letterario-sentimentale vanno ben calcolate a spiegarci la speciale natura, il valore ed i limiti effettivi della Merope, che nasce non da un impeto poetico profondo e totale, ma dall’incontro di un sentimento vivo, ma parziale e poco drammatico[22], e di una disposizione volontaria e letteraria, tecnica, la cui priorità è indiscutibile anche se non esclude la possibilità di un’animazione (in verità piú elegiaca che apertamente drammatica) dell’opera da parte di quel sentimento ispirativo, e la stessa importanza, per lo svolgimento successivo della tragedia alfieriana, di toni e motivi che l’arricchiscono quando siano ricollegati al fondamentale nucleo tragico alfieriano, come avverrà nel Saul e poi, anche piú chiaramente, nella Mirra.

La Merope deve essere dunque considerata, piú che per il suo intrinseco valore poetico (tutto sommato piú limitato e privo della piú profonda vibrazione tragica alfieriana, come poi vedremo), per il suo complesso significato nello svolgimento dell’opera alfieriana, per l’espressione di toni e motivi piú teneri ed elegiaci, per il tentativo di dare voce ad una umanità sempre eletta ed alta[23], ma piú gentile, meno violentemente tesa e drammatica, meno gigantesca e titanica; e soprattutto per la sua ricerca di soluzioni tecniche piú misurate ed equilibrate, di un linguaggio piú fuso e sciolto e graduato. Anche se, nelle sue condizioni di compromesso, nelle sue caratteristiche di rifacimento originale e di gara con un modello preciso, la Merope perde di quella intensità tragica e di quell’impeto profondo che l’Alfieri riacquista solo con il Saul, e finisce per concedere troppo ad una visione della vita piú media, a forme e moduli del teatro settecentesco (sino all’accettazione di un particolare lieto fine), nell’ardua prova da parte dell’Alfieri di raddrizzamento drammatico e originale di uno schema non suo, di distinzione e affermazione della sua tecnica su di una base media al cui contatto il grande poeta si piega per utilizzare certi suggerimenti del modello, allo scopo di rendere la sua esperienza non del tutto solitaria e inaccettabile al gusto del suo tempo, correggendo insieme certi aspetti estremi del suo primo stile e della sua prima tecnica che egli veniva modificando nella stessa revisione delle prime dodici tragedie.

La Merope costituiva cosí per l’Alfieri una specie di riepilogo e di revisione critica della sua precedente attività e la base di una ripresa (sollecitata dall’urgere ancora imprecisato del suo bisogno di espressione drammatica) che egli voleva confortare con la prova della propria originalità tecnica e teatrale nel confronto e nel rifacimento dell’opera tragica considerata come la migliore del Settecento italiano, e con l’utilizzazione di suggerimenti che da quel confronto potevano venirgli, coerentemente al suo desiderio di migliorare i propri mezzi espressivi e costruttivi, di renderli piú duttili e vari e capaci di gradazioni, di sfumature, anche in quella direzione di affetti piú teneri e delicati in cui si incontravano il tema del modello e il particolare sentimento che in quel periodo viveva fortemente in lui.

Occorrerà avvertire anzitutto che, se nelle pagine della Vita l’Alfieri finí per confondere in un’unica rievocazione entusiastica la ben diversa origine di Merope e Saul attribuendo anche alla prima il carattere di «impulso naturale» e irrefrenabile dell’Est Deus in nobis, del “bollore” della «facoltà inventrice» che si addice solo al Saul[24], egli aveva precisato molto meglio la natura e l’origine di quella tragedia nel Parere, là dove meglio ne spiegava il carattere di rifacimento originale, di “gara” con il modello, e indicava le linee dell’“alfierizzamento”. Anche se questo fu in realtà assai piú complesso, sia per i limiti entro cui avveniva, sia per la stessa volontà dell’autore di usufruire insieme di tale esercizio, ibrido fra intenzione e necessità poetica, allo scopo di moderare certo estremismo della sua tecnica e del suo linguaggio e di raggiungere l’espressione dei motivi di tenerezza e delicatezza che in quel momento erano piú genuini e congeniali agli stessi suggerimenti del modello:

L’autore ha dovuto di necessità impiegare molta piú arte nel condurre questa tragedia, che in nessuna altra sua; dovendo sempre avere innanzi agli occhi, che se egli non la intesseva meglio, cioè piú semplicemente, piú verisimilmente, e piú caldamente, che le precedenti di un tal nome, egli dimostrava contro a se stesso ch’ella era stata temerità l’intraprendere di far cosa fatta.[25]

Non a caso l’Alfieri si era rivolto alla Merope del Maffei (nel Parere parla delle tragedie «precedenti di un tal nome», ma, se nello svolgimento della sua tragedia tenne presente quella del Voltaire, meno guardò a quella del cinquecentesco Torelli e comunque rivolse la sua attenzione soprattutto alla celebre tragedia del Maffei, che era stata origine anche di quella voltairiana e che gli permetteva cosí di gareggiare implicitamente con la soluzione francese del Voltaire[26]) come all’opera che rappresentava, nel comune giudizio dei letterati settecenteschi, il prodotto migliore del teatro tragico italiano: giudizio cui lo stesso Alfieri consente pur distaccandosene quanto alla proclamata insuperabilità dell’opera maffeiana nel futuro e facendo forti riserve sulla sua altezza artistica, sulla sua esemplarità in assoluto[27].

E in effetti la tragedia di Scipione Maffei meritava l’attenzione dei letterati italiani (ma non certo il loro giudizio entusiastico, motivato in gran parte dall’orgoglio nazionale di poter finalmente opporre una tragedia efficace e dignitosa al teatro classico francese) e poteva essere considerata dall’Alfieri come l’opera al cui confronto provare la propria tecnica teatrale (cosí come egli l’aveva inizialmente letta per impararvi «qualche cosa quanto allo stile»), come il risultato di maggior validità della tradizione con cui meglio egli volle fare i suoi conti, in questo periodo di forti preoccupazioni letterarie.

La Merope del Maffei (1713) rappresentava un felice punto d’incontro e di equilibrio fra le varie esigenze espresse nei programmi di riforma arcadica del teatro tragico e fra i vari tentativi della sua attuazione che oscillavano fra soluzioni di classicismo piú regolistico ed aristotelico (Lazzarini, Salio, i “grecheggianti” eruditi pedanteschi), di classicismo originale e didascalico-storico (Gravina e poi Conti), di temperata adesione alle forme piú moderne del teatro francese (Martello). In questa generale aspirazione alla tragedia (aspirazione piú che profonda vocazione, ché l’animo arcadico tendeva naturalmente all’idillio e al melodramma e la stessa Merope del Maffei, a suo modo, ne fa fede), l’opera del letterato veronese (mossa piú da una volontà di esempio efficace che non da forte ispirazione poetica, e coerente alla sua posizione media ed equilibrata fra le diverse proposte pragmatiche della poetica arcadica – posizione espressa già dal Maffei nel discorso di apertura della colonia arcadica veronese del 1705) corrispondeva assai bene alle esigenze piú generali del gusto arcadico: organicità e regolarità dell’opera, unità di interesse e di azione (e fedeltà alle unità di luogo e di tempo), razionalistica verisimiglianza (contro la ricerca secentesca di effetti spettacolari e grandiosi), naturalezza di situazioni, di personaggi (decorosi, ma umani, medi e giustificati in una psicologia normale, accettabile da parte di una società poco amante dell’estremo e dell’eccessivo[28]), di linguaggio che pur nella dignità tragica fosse completamente comprensibile («rappresentar con ragionar naturale, maestà servando e decoro») e che nella misura del verso tragico unisse melodia e agevole discorsività («uno stile che contraffaccia le forme correnti del favellare», dirà il Martello a sostegno del suo tentativo di riproduzione dell’alessandrino francese[29]), moralità e “decenza” (donde il rifiuto dei temi passionali-amorosi) e insieme animazione di affetti familiari[30]. E mentre la Merope conciliava nel suo moderato classicismo (un mito antico, “greco”, ma rivissuto in una moralità e in un gusto settecenteschi e nella soppressione dei cori meno verosimili e “credibili”) e nel suo verso (l’endecasillabo sciolto, decoroso e discorsivo, melodioso, ma privo della rima aborrita dai classicisti puri – un mezzo di mantenere moderate possibilità di canto in una misura piú vicina all’esametro classico, equidistante dalle cadenze canzonettistiche, dalla rigidità disarmonica dello sdrucciolo, dalla monotonia del martelliano) le contrastanti esigenze rappresentate dal Gravina e dal Martello, essa riusciva (unica fra le numerosissime tragedie del primo Settecento) a unire letterarietà e teatralità, a imporsi sulla scena, recitabile e rappresentabile[31]. Un’opera capace di reggere il confronto con l’opera musicale e con il melodramma e di soddisfare l’interesse e il gusto di un pubblico vasto e medio (colto, ma non composto di puri letterati e specialisti) di cui l’abile letterato e uomo di teatro aveva interpretato le fondamentali e medie esigenze teatrali, letterarie, spirituali in una tragedia che nel suo fondo accoglieva, sotto il suo aspetto tragico, l’essenziale vocazione dell’epoca a una moderata tensione drammatica, venata di patetico e di idillico, vibrante piú di perplessità che di profondi impeti tragici, risolta in un lieto fine rasserenante e pacificatore.

Sicché essa (che a noi non può apparire se non come un abile prodotto letterario e tecnico, valutabile appunto in relazione alle condizioni del gusto settecentesco e non sul piano di un assoluto giudizio estetico) poté ottenere il successo di numerosissime recite e ristampe durante tutto il secolo (ebbe una cinquantina di edizioni!) e il riconoscimento degli stessi rivali del Maffei[32]. E se dopo le critiche del Voltaire[33] (da cui del resto ancora nel 1804 il Pindemonte difendeva il Maffei nella prefazione all’Arminio) può indicarsi un certo indebolimento del primo giudizio entusiastico (e l’aspirazione alla “perfetta” tragedia italiana venne rinnovata nelle mutate condizioni del gusto fra illuminismo, preromanticismo e neoclassicismo), sostanzialmente la Merope rimaneva ancora modello insuperato, e per alcuni insuperabile. Specie in quell’ambito piú pedantesco, conservatore e accademico a cui l’Alfieri reagiva, mentre d’altra parte, scegliendo proprio quell’opera per provare – a se stesso e agli altri – la bontà del proprio sistema tragico, la superiorità della propria arte e della propria poesia, egli riconosceva cosí che comunque solo quell’opera meritava, nella tradizione italiana, di servire da base alla sua gara e alla sua esperienza, alla sua concreta discussione con la tradizione precedente.

Naturalmente l’Alfieri sentí bene soprattutto i limiti tragici dell’opera del Maffei, la sua mancanza di un rilievo tragico dei personaggi troppo comuni, mediocri e loquaci, la prevalenza del parlato sull’azione, la dispersione dei contrasti nel pettegolezzo dei “confidenti”, ciarlieri e banali, la diluizione del linguaggio drammatico nel verseggiare troppo sciolto e letterario-familiare.

Come precisò nelle forme di una falsa autocritica ironica nella satira VIII, I Pedanti (1796), nella quale il poeta fa finta di riconoscere gli errori della propria tragedia, di accettare i rimproveri di Don Buratto (il cruscante pedante, che rimpiange i personaggi del Maffei semplici e “naturali”, cioè per l’Alfieri banali e convenzionali[34]) promettendo di applicare meglio in futuro i criteri tecnici e lo stile maffeiano, dei quali in tal modo ridicolizza la ricerca di discorsività, di misura giustificabile nella particolare direzione della poetica arcadica:

Trissineggianti poi versi modesti,

e moltissimi, molto appianeranno

lo stil, sí che il lettor non ci si arresti.

I Personaggi si triplicheranno;

né parran miei, sí ben Merope Prima

semplicetti, e chiaretti, imiteranno.[35]

La Merope alfieriana venne cosí concepita anzitutto come un alfierizzamento dello schema offerto dal Maffei e sviluppata seguendo le linee e le situazioni fondamentali di quello, ma rafforzandole, drammatizzandole piú energicamente, raddensandole in alcuni punti decisivi, coerentemente alla tecnica drammatica alfieriana, con un maggiore rilievo dell’azione (piú azione che narrazione), con l’abolizione dei personaggi intermediari (i confidenti di cui il Maffei si serviva per far narrare fatti non portati sulla scena e per atteggiare la sua tragedia nelle sue caratteristiche forme di dialogo e di conversazione), con la concentrazione dell’interesse sui soli personaggi necessari allo svolgimento dell’azione (quattro personaggi contro i sette del Maffei), con una caratterizzazione piú incisiva dei personaggi, con un piú intenso intreccio delle battute delle scene, con un linguaggio piú vibrato e appassionato.

Cosí (per precisare alcuni dei procedimenti tipici dell’alfierizzamento della tragedia e dell’indicativo esercizio tecnico qui eseguito dall’Alfieri) nel momento centrale della tragedia (imperniata sull’equivoco prodotto dalla ignorata identità di Egisto, che provoca la perplessità di Merope e le furie del suo amore materno contro quello che crede uccisore del proprio figlio, e sull’agnizione che, se chiarisce da un lato i rapporti fra Merope ed Egisto, complica la situazione drammatica esponendo Egisto alla vendetta di Polifonte) il Maffei graduava e rallentava l’azione in due successivi momenti: prima un primo tentativo di Merope di uccidere Egisto, che viene salvato dall’intervento di Polifonte che lo crede anche lui uccisore dell’odiato figlio di Merope (Atto III, scc. 4 e 5); poi la ripetizione del tentativo interrotto da Polidoro che rivela l’identità di Egisto (Atto IV, scc. 5 e 6). Mentre invece l’Alfieri (usufruendo anche della critica fatta a questa ripetizione dal Voltaire[36], che però seguiva il Maffei nel distacco fra l’agnizione e la successiva situazione drammatica di Merope che deve salvare il figlio dall’odio di Polifonte) raccoglie i possibili effetti tragici impliciti, ma diluiti nello schema del Maffei, in un’unica scena (Atto IV, sc. 3), in cui, mentre Merope sta per uccidere il figlio alla presenza di Polifonte che le concede la morte del presunto uccisore di Cresfonte per ingraziarsela, Polidoro è costretto a rivelare l’identità di Egisto (dopo un vano tentativo di salvarlo presentandolo come proprio figlio) esponendolo con ciò stesso alla vendetta di Polifonte, che lo fa arrestare dalle sue guardie e lo farebbe uccidere se non intuisse rapidamente quale vantaggio può trarre dalla sua vita offrendola a Merope in cambio dell’accettazione delle nozze.

Ed anche quando l’Alfieri (che sostituisce il piú possibile azione e rappresentazione diretta a narrazione, come fa nello stesso finale in cui l’uccisione di Polifonte ha luogo sulla scena, contrariamente alla soluzione del Maffei e del Voltaire, timorosi di ogni spettacolo troppo truce e violento[37]) accetta il procedimento della narrazione (di un antefatto però, che non poteva in nessun caso essere rappresentato direttamente), anche la narrazione viene rianimata drammaticamente, scandita e resa piú incalzante dalla partecipazione intensa del personaggio che racconta e rivive la propria azione accentuandone il carattere personale, agonistico, eroico ben diversamente dalla forma piú conversevole e distaccata del Maffei. Come si può utilmente riscontrare appunto nella scena 2 dell’Atto II, in cui Egisto narra come uccise l’ignoto giovane che gli sbarrava la strada verso Messene, e che l’Alfieri contrappose a quella del Maffei (Atto I, sc. 3), come significativa prova della diversa efficacia della sua tecnica e del suo linguaggio tragico, della diversa forza e del diverso rilievo dei suoi personaggi anche nelle forme stesse della narrazione[38].

Proprio la considerazione di questa narrazione e del rilievo che vi assume il personaggio di Egisto (cosí impulsivo, eroico, mosso da una giovanile ansia di avventura e di affermazione personale[39] e pure tormentato dal rimorso per il delitto che ha dovuto commettere nel suo ingresso a Messene) ci conduce a riconoscere in concreto l’impegno dell’Alfieri nel dare diverso vigore ai personaggi, liberati dall’atteggiamento di conversazione con i confidenti, resi piú alti nella loro maggiore individualità e nella essenzialità dei loro incontri, necessari all’azione e alle situazioni centrali e caricati (per quanto lo permette la generale impostazione del “soggetto” e la relativa forza ispirativa di questa tragedia) di un tormento e di una complessità psicologica variamente genuini ed efficaci (piú in Merope, molto meno in Polifonte e Polidoro) ma comunque significativi nell’alfierizzamento dell’opera presa a base di tale complessa operazione tecnica.

Alfierizzamento ben evidente anche nel paragone della costruzione del dialogo nelle due tragedie: nel Maffei cosí rettilineo, simmetrico, disposto a serie di versi concluse e compatte; nell’Alfieri cosí vario, intrecciato, rilevato in spezzature, interruzioni, movimentato da sospensioni, arricchito e approfondito da pause di silenzio e da scatti improvvisi, anche se assai lontano dal ritmo impetuoso, fulmineo di altre sue tragedie precedenti. Come avviene del linguaggio e del verso, tanto piú vibrante nell’Alfieri rispetto a quello piú familiare e discorsivo del Maffei (“semplicetto e chiaretto” come i suoi personaggi), facile a scendere in cadenze troppo dimesse o viceversa a sciogliersi in esiti cantabili, legato com’era a tutta una ricerca di tono medio, a forme affettuoso-idilliche, all’affabilità di un bonario realismo cosí caratteristico della poetica e dello spirito arcadico anche dove tendono ad una maggiore dignità classica e tragica[40].

Tuttavia, se la Merope alfieriana rappresenta un’interessante applicazione della tecnica tragica alfieriana (utile a mostrarci, nel confronto con quella del Maffei, la diversa impostazione alfieriana, la sua novità e la sua decisa originalità tragica rispetto alle caratteristiche della tragedia settecentesca, priva di una vera ispirazione tragica) e poté significare per l’Alfieri una riprova della bontà del suo sistema teatrale, della sua capacità di superamento assoluto di quella che il secolo considerava l’ottima delle tragedie italiane (e perciò tanto egli parlò della Merope e si affaticò a difenderla e a giustificarla nella sua lettera al Cesarotti e nella satira VIII, sopra ricordata), l’alfierizzamento del modello non toglie che in quest’opera si avvertano chiare tracce del compromesso imposto all’Alfieri da una simile impostazione di rifacimento su di uno schema cosí lontano dai temi piú interamente suoi. E i procedimenti tipicamente alfieriani notati nella Merope sono pure applicati entro i limiti di un’operazione poco ispirata e poco autonoma, e non trovano la giustificazione piú intima di un potente e geniale motivo centrale. Anche se, d’altra parte, entro questo compromesso e nella direzione della ispirazione parziale della «passione molle materna», il poeta pur otteneva risultati non trascurabili di toni piú affettuosi ed elegiaci e faceva esperienza di uno sviluppo meno impetuoso, piú calcolato e misurato dei suoi stessi mezzi espressivi e tecnici, del suo linguaggio in forme piú fluide e scorrevoli e pur sempre lontane dal discorsivo o dalle cadenze melodiche e affabili del Maffei.

Perché ciò che manca alla Merope è proprio il motivo poetico piú vero e centrale dell’Alfieri, la mèta di delusione e di catastrofe che tende nelle tragedie alfieriane l’impeto dei personaggi e dell’azione e ne provoca la vibrazione piú intensa e dolorosa, il tormento dei loro desideri inappagati, del loro urto eroico ed inane contro i limiti che li circondano e rendono supremamente tragica la loro ansia di liberazione e di affermazione. Questa tipica condizione della tragedia alfieriana era in contrasto con il “lieto fine” dello schema maffeiano che l’Alfieri accettava nelle sue linee fondamentali. E la tensione della tragedia ne veniva nuclearmente limitata e particolarmente indebolita proprio nel finale (è l’unico finale alfieriano risolto con il trionfo intero dei giusti e con la morte e la punizione del tiranno), in cui, dopo il rafforzamento della situazione piú drammatica nell’Atto IV (l’agnizione di Egisto di fronte al tiranno, già ricordata), l’azione si scioglie in maniera piú esterna e meccanica (e tuttavia rispetto al Maffei, se non altro, piú concisa e movimentata dall’effetto spettacolare della uccisione del tiranno sulla scena) con il gesto improvviso di Egisto il quale strappa la scure di mano al sacerdote sacrificante nella cerimonia delle nozze fra Merope e Polifonte, e colpisce quest’ultimo ottenendo la pronta adesione del popolo, che sopraffà le guardie del tiranno: risolvendo cosí nella concorde felicità di tutti i “buoni” una situazione che appariva quanto mai chiusa e troppo passivamente accettata da Merope.

Certo l’Alfieri cercò di dare a questo finale, cosí estraneo alla sua ispirazione, almeno una vibrazione che lo distinguesse in qualche modo da quelli del Maffei e del Voltaire, cosí coerenti alla impostazione sostanzialmente ottimistica delle loro opere[41]; ma questa vibrazione (l’improvviso turbamento di Merope che si sente mancare «dalla troppa gioia» e per gli «eccessivi affetti») è in realtà un espediente esterno, l’ombra superficiale (e quasi la involontaria parodia) delle grandiose catastrofi dei personaggi nelle tragedie alfieriane ed è del resto rapidamente inscritta e riassorbita (come un affanno che nasce da gioia troppo intensa e si recupera in nuova gioia e nel godimento della felicità saldamente assicurata) nelle parole pacate e sicure con cui Egisto conclude la tragedia.

Il raddrizzamento drammatico del rifacimento alfieriano giunge cosí ad una misura media, lontana dalla profondità delle migliori tragedie alfieriane come dal parossismo di tragedie del tipo della Rosmunda. E, mentre qua e là permangono tracce del modello maffeiano (specie in Polidoro e nella sua senile saggezza e in qualche battuta piú stanca di Egisto[42]) e certi procedimenti tipici del testo maffeiano inducono l’Alfieri a preoccupazioni di verisimiglianza piú grette ed esteriori[43], l’incontro fra le condizioni del soggetto offertogli dal Maffei, la volontà di gara su quel preciso schema, e l’inclinazione affettuosa genuinamente viva in quel momento nell’animo alfieriano contribuirono a far prevalere nella Merope una intonazione piú elegiaca e delicata (anche se assicurata in un rilievo drammatico che non poteva mai mancare in Alfieri e che egli perseguiva come modo di distinzione dal testo maffeiano) che non profondamente tragica ed energica, contribuirono a condurre l’autore verso una ricerca di equilibrio, di fusione, di misura che conferiscono un particolare interesse a questa esperienza, in vista della successiva attività tragica alfieriana.

Misura ed equilibrio nella costruzione generale (per cui la Merope, pur nei limiti notati e nella mancanza di una forte ispirazione, ha una sua efficacia teatrale), misura e finezza soprattutto nello sviluppo di quel sentimento intenso, ma piú delicato e ricco di sfumature, che vive nel personaggio di Merope e, piú che nei suoi impeti di sdegno contro Polifonte (che pur le assicurano una fierezza e una dignità regale necessaria alla sua femminilità cosí umana, ma non mediocre), nei suoi abbandoni malinconici, nel suo inappagato bisogno di affetto e di sfogo («Io deggio, / per piú martíre, in me tener racchiusa / sí fera doglia... Uno, in Messene intera, / non ho che meco pianga»)[44], nella tenerezza elegiaca con cui rievoca il ricordo del piccolo figlio perduto[45], nell’espansione materna con cui abbraccia il figlio nel movimento piú intenso della sua drammatica agnizione («Ch’io d’abbracciarti almeno e di baciarti / mi sazj...»)[46], nella trepidazione non per la propria, ma per la sorte del figlio. E negli stessi dialoghi di Merope con Egisto, non ancora riconosciuto, piú che le furie della madre che crede di vedere in lui l’uccisore del figlio valgono in tal senso le esitazioni turbate dal presentimento della verità, le pause in cui Merope ed Egisto sono uniti in una inclinazione sentimentale, affettuosa e delicata[47].

Sul contrasto drammatico prevale una vena di poesia elegiaca e il linguaggio raggiunge la sua maggiore e piú intima fusione, una finezza di toni e di cadenze che, senza cadere nel patetico e nel languido, rappresenta il maggior risultato di questa tragedia, in cui l’Alfieri dà voce ad una vita di affetti privati, familiari (ridotta qui al minimo la presenza del motivo politico delle macchinazioni poco efficaci del re “machiavelliero”, Polifonte), a una delicata gamma di sentimenti che, potentemente raccordati al centrale motivo tragico, qui assente, arricchiranno l’espressione poetica alfieriana nel Saul, sia nella vita dei personaggi minori (alla cui rappresentazione l’esercizio della Merope è essenziale), sia nella stessa vita del protagonista. Il quale, pur nella sua enorme altezza tragica, ha una sua chiara relazione con i personaggi minori in questa direzione di affetti familiari, nel suo rapporto paterno con i figli, e che, nella sua complessità (superuomo e uomo, tiranno e vittima), è ricco di abbandoni, di moti di tenerezza, di rimpianti elegiaci per una vita di pace consolata da affetti privati, ben diversamente da altri personaggi alfieriani delle precedenti tragedie, piú chiusi e monocordi nell’unica titanica tensione della propria personalità, nell’affermazione del loro io orgoglioso e prepotente, delle loro passioni, della loro volontà di assoluta potenza.

Certo di fronte a Filippo, a Eteocle, a Oreste, a Rosmunda, ci sono pure Antigone, Ottavia, Elettra, in cui già si esprimevano componenti poetiche e sentimentali piú complesse e delicate. Ma nella Merope questa direzione sentimentale è piú esplicita nella sua unilateralità e trova – fra ispirazione genuina ed esercizio stilistico e tecnico – una piú precisa corrispondenza di mezzi espressivi adatti a quella rappresentazione di una vita di affetti piú “umani” e delicati che l’Alfieri seguiterà poi a perfezionare al di là del Saul, fra l’esercizio poetico delle Rime e le tragedie che preparano il capolavoro della Mirra. Capolavoro in cui il tragico vive piú decisamente nel familiare, la passione piú tremenda e la lotta piú eroica ed infelice si svolgono entro un animo tenero e sensibile, in un ambiente umanissimo, pietoso, e il nucleo drammatico tende potentemente un organismo poetico armonico, fuso, sottilmente graduato, un linguaggio complesso che sale ai piú disperati impeti tragici da una base media, ricca e misurata.

E da questo punto di vista si può dire che lo stesso contatto dell’Alfieri con il testo del Maffei, l’esercizio di rifacimento e di gara con la tragedia che raccoglieva le piú tipiche esigenze settecentesche, mentre serví al poeta come riprova della validità della sua concezione tecnico-tragica, poté (pur nel riconoscimento della sua sostanziale diversità e nel compromesso cui lo indusse) utilmente contribuire a quell’affinamento dei suoi mezzi espressivi, a quella revisione del suo stile verso forme piú duttili e complesse, verso possibilità di toni anche medi e delicati. Toni di cui egli sentiva il bisogno per esprimere totalmente il suo animo ricco e complesso anche in quelle direzioni meno impetuose, piú elegiache e tenere che nel primo periodo della sua attività poetica erano state piú deboli in lui di fronte al piú urgente impeto delle passioni, del contrasto assoluto fra individui eccezionali e chiusi, scagliati in lotta fra di loro e contro il limite che la realtà oppone alla loro smisurata sete di libertà e di affermazione individuale. Ora con il Saul quell’impeto risorge piú profondo e centrale che mai nelle zone piú intime dell’animo alfieriano; il motivo tragico, l’intuizione tragica della vita tendono ad affermarsi con nuovo vigore e con la pienezza del loro ritmo eroico-pessimistico, superando nettamente le condizioni limitate della Merope. Ma essi si arricchiscono e si fan piú complessi in una visione piú vasta e articolata, in una espressione piú varia ed intera, a cui non manca neppure quella esigenza di maggiore varietà di toni poetici e di atteggiamenti stilistici che caratterizza questo periodo e di cui l’Alfieri anche troppo si compiacque nel suo Parere sul Saul.


1 Vita cit., I, p. 226..

2 Vita cit., I, p. 237

3 Il quale a lungo ingenuamente credette alle finzioni dell’Alfieri e della sua abilissima cognata pur fra dubbi e timori consegnati dal suo segretario ad un curioso Diario, che ci rivela questo aspetto meno simpatico della vita romana dell’Alfieri (se ne vedano i passi relativi nel vol. VI della biografia alfieriana di P. Sirven, Paris, Boivin, 1947).

4 Vita cit., I, pp. 226, 233-234, in cui pur l’Alfieri si giustifica di esser divenuto «dissimulato, e vile, per forza d’amore».

5 Cfr. Epistolario cit., I, pp. 10-3.

6 Scritti politici e morali cit., II, pp. 94 (Ode IV, vv. 88-9)e 99 (Ode V, vv. 89-90).

7 Vita cit., I, p. 227.

8 Vv. 113-128; Scritti politici e morali, II cit., p. 100.

9 Cfr. ivi, p. 218, in cui l’Alfieri ricorda l’origine del poemetto, che all’inizio andava «lavorando a pezzi», per esercitarsi «al far rime, da cui gli sciolti delle oramai tante tragedie [lo] andavano deviando».

10 Ivi, p. 257.

11 Basti per tutte l’apparizione dell’ombra del Savonarola sorta dall’Arno in tempesta, nella luce di un fosco tramonto: «Quando improvvisamente ecco turbarsi, / e mugghiando strosciar dell’Arno l’onda; / ora in vortici aprirsi, or rigonfiarsi, / tal che ne trema l’una e l’altra sponda: / non altrimenti che sott’essa d’arsi / zolfi s’aprisse voragin profonda, / sí ch’or l’acqua nel vuoto giú trabocca, / or l’adirato fuoco in su la scocca. / Cosí là dove al cavernoso fianco / d’Etna tonante il mar rabido fragne, / spesso Vulcan di sofferir già stanco / che impetuosa altera onda lo bagne, / quel foco, a cui mai l’esca non vien manco, / sgorga sovra le liquide campagne; / e d’imo a sommo a svolgerle sotterra / tutte le ardenti sue chiostre disserra. / Or che fia mai, che l’umil Arno agguaglia / a mar, ch’ogni elemento a prova mesce? / Ecco già vinta ha la feral battaglia / fiamma, che fuor dell’acque orribil esce: / torba fiamma, che in su già non si scaglia, / ma lenta lenta a poco a poco cresce; / ed or l’asconde, or l’appalesa un tetro / fumo, che intorno serpe in vario metro. / Di sangue assai piú che di fiamma rosso / color tra ’l negro fumo ivi traspare; / pria smisuratamente sopra il dosso / dell’onde alzato torreggiante appare; / quindi forma vestir di uman colosso / vedi il vapor; poi dal salir restare: / e quel fragor terribile tacendo, / piú terribil seguir silenzio orrendo» (Canto II, vv. 273-304; ivi, pp. 33-34).

12 Canto I, vv. 327-328 e 337-340; ivi, p. 13.

13 Si veda, ad esempio, la caricatura di Coriccio, maestro di cerimonie: «Alta scienza in cor preme nascosa; / il preceder, lo star, l’andare altrui, / e il sedere, e il rizzarsi, e ogni altra cosa, / ch’usa del prence alla presenzia sacra, / son gli alti studj, a cui la mente ei sacra» (C. III, vv. 52-56; ivi, p. 42); o quella di Pitillo, vecchio coppiere di corte: «Molle attillato qual prisco Batillo, / l’appassita beltà coll’arte accresce; / bianca fresca vermiglia e liscia pelle / ha sí, che par suo viso opra d’Apelle» (C. III, vv. 61-64; ivi, p. 43), in cui la lezione del Parini è seguita nei suoi modi piú esterni e senza la caratteristica eleganza classicistico-sensistica del modello.

14 Come avviene nel caso del vescovo, in cui l’Alfieri satireggia il suo contemporaneo Martini, traduttore della Bibbia e vescovo di Firenze, a cui solo l’interessato risentimento dell’Alfieri (a causa dell’intervento del Martini nelle vicende della relazione del poeta con la d’Albany) poteva attribuire l’ufficio di persecutore degli amanti, per lasciare solo «delle mogli altrui / partecipare il prence, e i preti sui» (C. III, vv. 255-256; ivi, p. 49).

15 Vv. 469-472; ivi, p. 55.

16 Canto I, vv. 425-432; ivi, p. 16.

17 Le “pitture” che seguono sono tutte inferiori a questo inizio e non realizzano piú l’energico effetto satirico dell’ultimo verso dell’ottava citata, invano tentato nella “pittura” di Clemente VII che rifugiatosi in Castel Sant’Angelo durante il sacco di Roma soccorre il suo popolo abbandonato “fulminando parole” contro il nemico (vv. 593-600); o in quella di Caterina de’ Medici, che nella notte di San Bartolomeo («apostolico macello») è rappresentata in mezzo all’orrore della città insanguinata dal «pio coltello» intenta solo a «vietar ch’abbiansi i morti anco un sospiro» (vv. 649-664).

18 E che trova forte espressione anche in questo poemetto, in qualche lampo piú intenso e fugace. Come nel Canto I, vv. 103-104, dove la Libertà dice a Lorenzo, condensando in due versi l’equazione alfieriana vita = libertà e gloria: «Chi serve muor; ma chi dirà ch’ei mora / l’uom, cui d’eterna fama il mondo onora?» (ivi, p. 6).

19 Canto II, vv. 393-400; e per la citazione seguente vv. 401-406; ivi, p. 37.

20 Vita cit., I, p. 227.

21 Parere sulle tragedie e altre prose critiche cit., p. 120.

22 Proprio in questo periodo l’Alfieri si apriva piú chiaramente ad affetti piú teneri e delicati, a sentimenti piú “umani”, e proprio l’affetto per la madre e il rapporto affettuoso tra figlio e madre trovava espressione, in questi anni, nelle numerose lettere rivolte alla madre e in un frammento di elegia (9 luglio 1782) che possono mostrare la congenialità del tema della Merope con un elemento della vita sentimentale alfieriana, anche se la sua unilateralità, rispetto alla piena, complessa, centrale espressione dell’animo alfieriano nel Saul, conferma il potenziale limite della Merope.

23 Gli stessi sentimenti piú teneri e umani trovano espressione nell’aristocratico Alfieri solo su di una base alta, entro un cerchio sicuro di nobiltà spirituale, di congenialità di persone non mediocri, come avvenne nella sua stessa esperienza biografica, nella scelta rigorosa di amici a cui solo il suo animo rivela la sua straordinaria ricchezza di affetti.

24 Nella Vita si insiste sempre sulla forza irresistibile con cui l’ispirazione si impone all’autore e tale impostazione viene applicata anche alla genesi della Merope, anche se non manca in questo caso una particolare e interessante accentuazione di un moto di sdegno di fronte all’eccessivo favore di cui godeva la Merope del Maffei, nella volontà alfieriana di mostrare come lo stesso tema potesse essere sviluppato in maniera «assai piú semplice e calda e incalzante». Col che l’Alfieri riconosceva una prima ragione di gara, di impegno polemico, nell’origine di una tragedia ch’egli poi assimila al Saul nella violenza con cui essa l’avrebbe obbligato a scriverla e completarla, malgrado la promessa fatta a se stesso di non superare il numero delle prime dodici tragedie (cfr. Vita cit., I, pp. 227-228).

25 Parere sulle tragedie e altre prose critiche cit., pp. 119-120.

26 Il paragone fra la Merope alfieriana e le opere precedenti dello stesso nome fu tema di studio molto caro agli studiosi del “metodo storico” (vedi ad es. P.E. Castagnola, Le quattro ‘Meropi’, in Dramma. Saggi critici, Imola, s.e., 1897; G. Gizzi, La ‘Merope’ e la tragedia, Torino, Loescher, 1891; G. Hartmann, ‘Merope’ im italienischen und französischen Drama, Leipzig, Böhme, 1892; G. Canonica, Merope nella storia del teatro tragico greco, latino e italiano, Milano, Hoepli, 1893; ecc.). Naturalmente quel confronto era male impostato come ricerca assurda di uno sviluppo del “soggetto” da parte di molti poeti e come valutazione comparativa di opere cosí diverse per ispirazione personale e per le condizioni storico-estetiche in cui erano nate. Il nostro studio della Merope alfieriana in relazione a quella del Maffei si giustifica non come astratto paragone di valore (come paragonare il grande Alfieri, anche in un’opera debole e ibrida, con il Maffei, non piú che abile e dignitoso letterato?), ma in funzione dello studio di un momento della poetica alfieriana, del rilievo critico di un’opera nata in gran parte come rifacimento e come esercizio tecnico e programmatico).

27 Nella Vita precisa che al leggerla «mi sentii destare improvvisamente un certo bollore d’indegnazione e di collera nel vedere la nostra Italia in tanta miseria e cecità teatrale che facessero credere o parere quella come l’ottima e sola delle tragedie, non che delle fatte fin allora (che questo lo assento anch’io), ma di quante se ne potrebber far poi in Italia» (Vita cit., I, p. 227). E nella prima redazione della Vita il giudizio era ancora piú severo anche nei riguardi dello stile, che l’Alfieri trovava degno di tal nome solo in «pochi luoghi» di quell’opera (cfr. Vita cit., II, p. 178).

28 Esigenze esposte dallo stesso Maffei nel suo trattato De’ teatri antichi, e moderni.

29 P.J. Martello, Del verso tragico, in Scritti critici e teorici, a cura di H.S. Noce, Bari, Laterza, 1963, p. 179.

30 In tal direzione le discussioni italiane sulla tragedia poterono fruttificare fuori d’Italia nella stessa origine del dramma borghese (si pensi soprattutto alle relazioni Calepio-Bodmer).

31 Il Maffei ebbe piú degli altri tragici arcadici un’esperienza teatrale acuita dalla sua vicinanza ad attori come il Riccoboni e la Balletti (vedi in proposito il saggio di C. Varese, Appunti sul linguaggio teatrale del settecento, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 57° (1953), pp. 131-136; poi con il titolo Il Maffei, il Baruffaldi, Elena Balletti e il linguaggio teatrale del Settecento in Id., Pascoli politico, Tasso e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 217-224). Piú infelici furono i suoi tentativi di far riportare sulle scene antiche tragedie cinquecentesche (le dodici tragedie del teatro italiano da lui pubblicate allo scopo di ricostruire una tradizione teatrale nazionale).

32 Cosí il Gravina poteva scrivere al Maffei: «La vostra tragedia non poteva veramente essere migliore, per bandir dal teatro l’infamia, la mostruosità presente, e per la vera espressione della natura, tanto incognita a quei tragici stranieri che oggi fanno tanto rumore» (cit. da G. Silvestri, Scipione Maffei europeo del Settecento, Vicenza, Neri Pozza, 1968 (1a ed. 1955), p. 77). Anche i francesi, cosí acerbi censori della letteratura italiana, riconobbero, almeno fino al Voltaire, la bontà della Merope, ed E. de La Santé esortava i letterati italiani: «Dent Itali, dent saepe tragoedias qualis illa est Merope».

33 Il Voltaire aveva, in una lettera al Maffei, già indicato le sue riserve (pur fra elogi e riconoscimenti) di fronte a un’opera che egli considerava buona per il teatro italiano, ma insufficiente rispetto al gusto francese piú esigente e raffinato. Si era poi servito dello pseudonimo di M. de la Lindelle (e della sua risposta a questo suo prestanome) per denunciare piú apertamente il suo profondo dissenso legato alle esigenze classicistico-razionalistiche portate all’estremo, all’ideale della regolarità, della bienséance e della dignité, della moralità che il Maffei avrebbe continuamente violato con grossiéretés, inverosimiglianze, disordine (cfr. Voltaire, Théatre, tome II, Amsterdam, Chez François Canut Richoef, 1770, pp. 189-215). Cosí la Merope del Voltaire (1736) fu anch’essa opera prevalentemente programmatica (e in tal senso interessante per lo studio della poetica classicistico-illuministica francese) e rappresenta l’applicazione estrema dei canoni voltairiani di regolarità, di chiarezza, di verisimiglianza, di morale virtuosa, di decoro e di linearità.

34 «Quel mio buon venerabile barbone, / ch’era il Nestòr di Omero mero mero, / cangiato io ’l veggo in vecchio non ciarlone: / e quel naturalissimo sincero / crudelotto Tiranno Polifonte, / mi si è scambiato in Re Machiavelliero»; vv. 100-105; Scritti politici e morali, III cit., p. 126.

35 Vv. 121-126; ivi, p. 127.

36 Nella lettera di M. de la Lindelle (Théatre, II cit., p. 211) in cui ridicolizza la sterilità dell’invenzione del Maffei (che aveva variato la stessa situazione con il particolare della diversa arma che Merope vibra sul figlio: prima un dardo e poi un’ascia) e il “ridicolo” e l’“indecoroso” della prima scena, nella quale Egisto è sorpreso dalla madre mentre dorme su una panchina dell’atrio della reggia.

37 I tragici settecenteschi rifuggono in genere dalla rappresentazione di azioni sanguinose sulla scena, e su questo punto la loro ammirazione per i tragici greci si cambiava in un dissenso che si rivolse naturalmente tanto piú apertamente contro il procedimento dei finali alfieriani da parte dei critici legati alla “delicata” maniera seicentesca.

38 Basti notare in questo confronto l’uso alfieriano del dialogo entro la narrazione, che la rianima nella concitazione con cui Egisto narra un movimento di scena e di contrasto e ricrea personaggi. Per non dire dell’abolizione di quei particolari riflessivi e sentenziosi cosí frequenti nella narrazione e in tutte le parlate del Maffei, coerenti alla sua impostazione piú discorsiva e familiare, confinante a volte con effetti involontariamente comici e leggermente goffi. Cosí Egisto commenta nel pieno della narrazione il colpo che l’avversario stava per assestargli con la sua clava: «Che, se giunto m’avesse, le mie sparse / cervella farian or giocondo pasto / ai rapaci avoltoi» (At. I, sc. 3; in S. Maffei, Opere drammatiche e poesie varie, a cura di A. Avena, Bari, Laterza, 1928, p. 11). Su alcuni di questi aspetti dell’alfierizzarnento della Merope maffeiana sono importanti le pagine dedicate alla tragedia da M. Fubini, Alfieri cit.

39 C’è in Egisto quasi il ricordo di Oreste nella tragedia omonima, come in Merope ritornano tracce di Ottavia e di Antigone, in Polidoro di Pilade, in Polifonte di vari tiranni delle precedenti tragedie.

40 Si pensi, per il bonario, affettuoso realismo familiare (non privo di efficacia entro la condizione non profonda e tragica dell’opera), ai versi con cui Merope esprime un primo moto di simpatia per Egisto: «O Ismene, nell’aprir la bocca ai detti / fece costui col labbro un cotal atto, / che ’l mio consorte ritornommi a mente, / e me ’l ritrasse sí com’io ’l vedessi» (Atto I, sc. 3; Opere drammatiche cit., p. 10). Quanto alla tendenza idillica che vena tutta la Merope maffeiana, basti pensare al monologo di Egisto che, in mezzo ai pericoli in cui si trova sbalzato nella reggia di Messene, rimpiange il «pastoral ricetto» dove era cresciuto in esilio, la dolce vita campestre («Che viver dolce in solitaria parte, / godendo in pace il puro aperto cielo, / e della terra le natie ricchezze!») e soprattutto il suo «letticciuolo» e i suoi placidi sonni perduti («O quanto or caro il mio / letticciuol mi saria! Che lungo sonno / vi prenderei! Quanto è soave il sonno!» (Atto IV, sc. 3; ivi, p. 48). Del prosastico in cui cade spesso il linguaggio maffeiano per la ricerca del «ragionar naturale» (che era pure impegno notevole nella volontà arcadica di concretezza e di naturalezza) può essere esempio una battuta come questa in cui Merope, alle interessate profferte di amore di Polifonte, risponde con una mossa piú da commedia che da tragedia: «Amore, eh?» (ivi, p. 7). Forme estreme di un tono che trova i suoi migliori risultati in un’affettuosa, moderata eloquenza, in un patetismo affabile e poco profondo.

41 Nella Merope del Maffei i personaggi si scambiano assicurazioni di felicità e di sempiterno affetto nella loro tipica impostazione di bonaria, saggia dignità, di affettuoso patetismo, di pacificazione idillica; in quella del Voltaire prevale la piú rigida e decorosa sentenziosità morale che verifica in termini razionalistici e deistici l’inevitabile trionfo della virtú.

42 Nella sc. 4 dell’Atto II Egisto riecheggia certa sentenziosità piú convenzionale, una morale piú idillica che stona nettamente nell’Alfieri.

43 Che vennero poi riprese nella giustificazione critica della lettera al Cesarotti su di un piano a cui l’Alfieri si abbassava, troppo concedendo al gusto piú accademico del suo tempo: si veda ad esempio l’angusta difesa del mezzo di agnizione di Egisto: il fermaglio invece dell’anello adottato dal Maffei (Parere sulle tragedie e altre prose critiche cit., pp. 268-269).

44 At. I, sc. 1, vv. 20-23; in V. Alfieri, Merope, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di A. Fabrizi, Asti, Casa d’Alfieri, 1968, p. 5.

45 Vedi Atto III, sc. 2, quando Merope crede che il figlio sia morto e che abbia avuto ragione, piú che la sua ansiosa speranza, il doloroso presentimento che la turbava dalla lontana notte in cui essa aveva affidato il fanciullo al fedele Polidoro: «Ah! mel diceva il core... / in quella notte orribile, che in braccio / io tel ponea:... Mai piú tu nol vedrai... / Con sue picciole mani ei mi avvinghiava / sí strettamente il collo; oh ciel! parea / quasi il sapesse, che per sempre ei m’era / tolto» (vv. 153-159; ivi, p. 38).

46 At. IV, sc. 6, vv. 361-362; ivi, p. 67.

47 Vedi Atto II, sc. 4, in cui Merope cede alle parole dolenti di Egisto, che rimpiange il delitto involontario, e interrompe il proprio sdegno contro di lui, presa dalla intonazione sentimentale del suo discorso: «Ma, qual parlar! qual piangere!... Che fia? / Mal mio grado ei mi tragge a pianger seco» (vv. 262-263; ivi, p. 27).